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Visualizzazione dei post da 2012

Cinque grammi di caffé

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Il 1 dicembre la boutique manager mi ha chiamata da parte: "Ho già il tuo Iban?", mi ha chiesto. E io - balbettante - me la sono guardata e "sì, sì ma a che ti serve?". Facciamo sempre domande stupide per prendere tempo. Quando non ci capacitiamo che quella cosa la stanno chiedendo proprio a noi. E' stato così che mi si è aperto un mondo: ogni primo del mese ci sono luoghi i cui dipendenti (e anche i collaboratori occasionali come me) sono retribuiti (r-e-t-r-i-b-u-i-t-i), e questo dato non è opinabile, non scatta su richiesta come riflettevo qui , ma  appartiene alla sfera delle certezze. Una sfera molto ben assortita, a quanto pare: chi lavora in questo posto gode di straordinari pagati, ha diritto ai buoni pasto, può contare su alcune garanzie, granitiche, direi: puntualità estrema nei pagamenti, un buon contratto, diritti rispettati.

Diario della mia vita da commessa (parte due)

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Arieccomi . Riprendo il Diario della mia vita da commessa part time (#c'ègrossacrisi) anche se dall'intimo firmato sono passata al caffè (sempre firmato eh). Lavorerò per tutto il mese di dicembre per otto ore al giorno, dal venerdì alla domenica e durante i feriali farò turni più brevi, alla bisogna. La boutique del caffè è centralissima, assomiglia più a un club che a un negozio e se lo chiami semplicemente caffè, alzano il sopracciglio ma sempre col sorriso - "meglio Cru, Grand Cru" - e poi ci sono svariate combinazioni di miscele di origini diverse  - "blend, meglio blend" - e varietà "pure origin" che provengono esclusivamente da quelle coltivazioni e i decaffeinati naturali, tramite acqua, mica quello che compra mamma al supermercato - "ché lì il processo di decaffeinizzazione avviene chimicamente" - ed è tutto un "bouquet, un'armonia, una nota fiorita, speziata, robusta, fruttata, tostata e perfino legnosa" (quest

Formigoni come la croce rossa e due parole a Lerner

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Ormai la vicenda che ha coinvolto Roberto Formigoni, la sua portavoce e Cristina Parodi  è nota : dopo un’intervista al Cristina Parodi live, nuovo programma di La7, il governatore della Lombardia, infuriato per le domande, a suo giudizio non strettamente politiche e non concordate prima con l’intervistatrice, se l’è presa con Gaia Caretta, sua portavoce, urlandole contro: “Adesso stai qui e spacchi la faccia alla Parodi, e a tutta questa banda, oppure sei licenziata”. Caretta, in serata ha inviato questo tweet: “Non parlo della vicenda di oggi, sono coinvolta in prima persona e non lo riterrei serio e professionale. Ringrazio x gli attestati di stima”. Un comportamento comprensibile e, se vogliamo, professionale.

La democrazia sputtanata e ferita

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Ieri è stata una giornata terribile per tutti noi e per quei diritti fondamentali di cui ciascuno gode ma che non hanno corpo e sostanza fino a quando non sono violati, calpestati, feriti. Tre fotogrammi completamente diversi hanno invaso le nostre bacheche “social”, hanno attraverso il web e sono andati via cavo, a testimoniare che la democrazia è ancora una terra da conquistare. Almeno una parte importante di essa. Il primo è rappresentato dalla “medaglia” a due facce delle manifestazioni di ieri: il bastone del poliziotto che colpisce da dietro un giovane e i molotov e le spranghe dei balordi. Immagini che hanno mostrato a tutti quanto abbiano bisogno, l’una dell’altra, queste due violenze – quella degli infiltrati nei cortei e quella dello Stato che picchia duro, e non solo per difendersi – due “furie” che puntualmente si danno convegno quando a scendere in campo per protestare in difesa dei loro diritti sono studenti, operai, cittadini, altrimenti invisibili. Occorre dirlo c

Vorrei usare parole perfette

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A me la ciclicità fa paura. Tanta, forse troppa. Peccato sia il tic umano più diffuso, l'abito più indossato. Discuto con me stessa mentre mi colgo in flagranza di reato: mi detesto con forza, ogni volta che commetto gli stessi errori, quando mi abbandono a identiche illusioni (che ho passato al vaglio, analizzato, razionalizzato, esaminato a prova di entomologo), riaccarezzo ipotesi scartate da tempo e ridò corpo a pensieri vaporizzati sul nascere, evanescenti, troppo per reggere allo scontro la realtà. E basta! Gli altri, solo quelli da cui mi sento circondata come da un esercito minaccioso, mi sono tutti complici in questo eterno tornare sui propri passi: sembra che l'unica cosa che ci unisce sia quella di fare infiniti giri intorno al tavolo della realtà parallela, quella che non esiste.

Il giorno delle anime

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Il "Giorno delle Anime" lo chiamano in Brasile. Mentre qui è la giornata della commemorazione dei defunti, di chi si è sciolto da ogni obbligo terreno. Ogni anno, prima del due novembre, mi preparavo psicologicamente ad essere triste. Ricordo persino che, da piccola, una mia amica mi intimò di non accendere la radio nella giornata dedicata ai morti: la musica avrebbe potuto offenderne il riposo. Ora ci rido su, ma l'ambiente intorno a noi, quando ancora non siamo abbastanza solidi, esercita una pressione incredibile sulle nostre vite. "Devo essere triste perché mia madre è triste", mi ripetevo da piccola: uno stato d'animo che diventava un obbligo di solidarietà, impastato di amore e ricatti involontari. Così, andare al cimitero era una tortura: diventavo tachicardica al solo pensiero della sofferenza che avrei letto negli occhi dei superstiti, e passavo il tempo a sorvegliare che nessuno della mia famiglia avesse il volto rigato dalle lacrime.

Ripensando a quel "choosy", nella giornata del recupero crediti

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Ripensavo, oggi, a tutta la querelle sulla scelta della Fornero del termine "choosy". Ero a un pranzo con altri colleghi dopo aver partecipato a una conferenza stampa alla Camera e, tipicamente, in queste situazioni si demarca il territorio (sì, un po' come fanno i nostri cani quando pisciano  su un ciuffo d'erba o all'angolo della strada già innaffiato da qualcun altro): "tu per chi scrivi?", "dove lavori?", "di cosa ti occupi?". Insomma, ci si prende reciprocamente le misure. C'erano due colleghe dell'Ansa, più grandi di me, molto gentili. Ho detto loro che faccio la freelance e che quel pezzo sarebbe andato (il condizionale è sempre d'obbligo) su LaStampa.it, tra gli approfondimenti realizzati da Greenews. Tante parole per spiegare una semplice corrispondenza di tipo giornalistico, tanta discontinuità, troppa fatica a star dietro a tutto (ché questa è solo una parte). Nel dirlo, mi sono ascoltata, ho guardato le coll

Marte se n'è andato

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Sono in un momento in cui coltivo l'ambizione illusoria di vivere in pace con le persone che fanno parte della mia vita, a vario titolo. In effetti, l'infuocato Marte si è deciso da poco a voltarmi le spalle, lasciandomi a secco di combattività, e l'influenza di qualche altro pianeta benigno ha portato con sé il desiderio di mediare. Faticosamente mediare. Chi mi è più amico di altri, senza mezzi termini, un tempo mi ripeteva spesso: hai un carattere pessimo, stai attenta, ne pagherai il prezzo. Ho sempre pensato che non fosse esattamente così, pur ammettendo che in alcune situazioni io avessi dato davvero il peggio di me, lasciando per strada morti e feriti.  Sarà per una specie di pena del contrappasso che, da un certo momento in poi, ho vissuto con un parafulmine incorporato: temendo così tanto lo scontro da soffrirne preventivamente, e rinviando all'infinito inesorabili rese dei conti. Che quando arrivano, spazzano via tutto, come furie. Poi, stasera, mi

Se non ora, quando? Mai

Cena da amici. Conosco pochissime persone e per la prima mezz'ora decido di starmene muta, in ascolto e osservazione. La scelta non è difficile: sono tutte persone piacevoli, intelligenti e con diverse cose da dire. Sto bene. In particolare, adocchio una persona: mi piace. Particolare, brillante, assertiva, per nulla banale nelle cose che dice e in come le dice: sì, decisamente mi piace. Una donna.  La premessa è doverosa: io sono una dagli "innamoramenti" facili e veloci. Se mi piace un umano lo idealizzo, ne ridisegno i contorni, lo coloro per renderlo ancora più bello. Alla fine, ça va sans dire , è un disastro. Ma torniamo alla cena.

Te li do io i centri per l'impiego

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Da alcuni mesi, da quando la crisi economica picchia più forte e le mie collaborazioni sono diventate più discontinue, mio fratello mi fa la telefonata settimanale, da Lecce, per ripetermi - in tono rassegnatamente severo - che "sì, ok, zero aspettative, fiducia minima, ma che i centri provinciali per l'impiego esistono, ed io ho l'obbligo morale di iscrivermi, e sarei una stupida a non farlo".  Piccolo passo indietro: io e mio fratello siamo orfani per cause di servizio. Dunque, apparteniamo a una categoria protetta: al pari di chi è portatore di disabilità, degli invalidi di guerra (ma ormai sono tutti morti) e degli orfani di guerra (in pensione).  La legge 68/1999 stabilisce percentuali e modalità di inserimento delle categorie protette, agli articoli 7 e 9.

Nipoti

Li guardo senza essere vista, sempre un passo indietro, scorgendo ogni volta un tratto nuovo, quasi adulto: un pezzo di carne che prima non c'era, una linea acerba disegnata dal corpo sempre in movimento, che ogni secondo cambia forma e diventa futuro. Sono i miei nipoti e, forse, il fatto che io non abbia figli, rende tanto potente quest'osservazione e l'impatto che ha su di me la vita in trasformazione.  Quando sono lontana, il loro pensiero mi adombra: l'idea che crescendo, diventino altro in mia assenza, mi provoca un senso di vuoto e un piccolo dolore sempre presente. Come una fitta insistente.

Se fosse l'acqua il mio elemento

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"Se solo fosse l'acqua il mio elemento", si disse lei, seguendo a fatica una piccola onda che, solitaria e veloce, increspava la superficie liscia del mare verdognolo che le faceva rimpiangere il blu di quello salentino. E invece il suo elemento era il fuoco: si infiammava per nulla e bruciava, bruciava. Fino a incenerirsi, fino al punto che non c'era più nulla che le fiamme avrebbero potuto divorare. Bruciava per un pensiero, ardeva per un'idea, prendeva fuoco seguendo un sogno. Soprattutto se era un sogno impossibile. E alla fine non restava più nulla. Era stufa di quel nulla, sempre dolorante, sempre in preda a un sentimento di estinzione. Per questo, da tempo, si diceva che era arrivato il momento di avere vicina l'acqua: che l'avrebbe placata per un po', dissetata, fino a spegnerla. Il mare glielo ricordava, tutte le volte. Che lei e il suo fuoco erano liberi di ardere a piacimento, e che perciò erano soli. Un incendio fa terra bruciata int

E di nuovo cambio casa

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Sto per cambiare casa. Chiamo a raccolta gli oggetti che hanno abitato con me questo posto negli ultimi quattro anni. Una conta impossibile: quello che cerco non lo trovo, e al suo posto si presentano ricordi e pensieri ben custoditi nelle cose che ho raccolto. I traslochi sono didattici: ti insegnano che gli spazi non sono solo luoghi da riempire ma anche luoghi che ti riempiono. Non è che li vivi per un pezzo e loro restano neutri: tu ci litighi, soffri, senti, urli di gioia, piangi, ridi e tutto quello che esce da te si incrosta sulle pareti, scorre nelle insenature dei marmetti, si insinua nelle pieghe dei divani. Fa ridere, ma quando sei in affitto, non pensi mai che una casa possa essere davvero tua. Poi, di fatto, lo diventa, perché troppe ne ha sentite e viste per restare solo un'estranea. Così, ora che sto per salutarla, provo anche un po' di dolore: per il tempo finito, per gli sprechi, perché qui avrei voluto vivere meglio, e non ci sono riuscita.

“Restiamo umani” contro la malasanità

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“Restiamo umani”, scriveva Vittorio Arrigoni prima che fosse ucciso da altri uomini. E su YouTube, c’è ancora lui che in un filmato dice: “Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere, credo che apparteniamo tutti alla stessa famiglia che è la famiglia umana”. Ci sono persone così, che nonostante siano tradite a morte dai propri simili, continuano a credere in loro, ad avere fiducia nell’uomo: forse Vittorio la penserebbe allo stesso modo anche oggi. Io no. Quando, ieri, il Corriere ha pubblicato le intercettazioni che mettono con le spalle al muro due medici e un’ostetrica dell’Ospedale di Boscotrecase, in provincia di Napoli, mentre cercavano di “apparare”, aggiustare, la cartella clinica della piccola Antonia, morta subito dopo il parto, per nascondere le loro responsabilità, ho pensato subito che sì, quella vigliaccheria fosse tipicamente umana: ossia limitata, imperfetta, misera come gli uomini, purtroppo, sanno essere molte volte in una sola vita.

Balo come King Kong e le scuse ridicole

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Mario Balotelli raffigurato come King Kong appeso al Big Ben e bersagliato da palloni che lo investono come missili, quelli della Nazionale inglese: questa la vignetta a firma di Valerio Marini, pubblicata ieri sul quotidiano sportivo più letto d’Italia, la Gazzetta dello Sport. Su Twitter, immediatamente, segue un coro di cinguettii di protesta, molti chiedono il boicottaggio del giornale rosa. L’attaccante del Manchester City, che indossa l a maglia numero nove della Nazionale italiana, di origini ghanesi ma preso in affidamento da una famiglia bresciana, è da sempre molto criticato a causa del suo brutto carattere. Il repertorio è tristemente ricco: si va dai banali “buu” al lancio delle banane, da “Balo negro ed ebreo” a petardi e saluti nazisti. Il suo ingresso in campo, durante la penultima partita agli Europei 2012, quella contro l’Irlanda – la stessa contro cui segna il 2-0 in mezza-rovesciata – viene accompagnato dai fischi del pubblico. L’Uefa apre s

Se un passato a luci rosse fa scoop

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Ogni tanto, in Italia, un giornalista pubblica uno scoop-che-non-è-più–uno-scoop da molto tempo, eccetto, apparentemente, per il giornale che lo ospita. È accaduto anche ieri quando, per il decimo anno consecutivo, abbiamo tutti letto , condiviso e ritwittato la storia “piccante” che vede come protagonista la capo ufficio stampa dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia – ente sotto la vigilanza del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – con un passato di “bella e talentuosa attrice di film erotici e soft-porno”. Questa, la non-notizia lanciata da Il Fatto Quotidiano , perché – si spiega – “i precari dell’INGV protestano contro la loro collega”. Si tratterebbe di 270 degli ottocento ricercatori che, a causa dei tagli operati ai fondi per la ricerca dall’ex ministro Gelmini, lavorano senza contratto e, dunque, hanno più di qualche motivo per essere incazzati. E cosa fanno?

La crisi è anche crisi di libertà

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Pensavo alla crisi ieri. Ne parlavo con un'amica: le dicevo di quanto tutto sia diventato difficile, di come sia impossibile mettere soldi da parte e semplice indebitarsi, e che per fortuna c'è la 'famiglia' d'origine a sostenere noi ex-giovani a caccia di futuro, lei sì che funziona veramente come forma di welfare alternativo... La mia amica, che faceva sì con la testa e mi comprendeva davvero, è appena uscita fuori da due anni di cassa integrazione e l'hanno richiamata in azienda da poco, al prezzo di andar via da qui e fare su e giù ogni settimana. A 48 anni. Parlavamo fitto, e facevamo di conto, quando incontriamo lei, F., giovanissima ragazza madre, sudamericana, amica di quartiere: vive con la figlia in casa di un signore che assiste e che in cambio dà loro vitto e alloggio. Ma da qualche settimana F. si sente poco bene: è gonfia, ha la pressione alta, si sente depressa, non ha le forze, le gambe non le reggono. Mentre ce lo racconta si mette a piange

Famiglie

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Ci sono parole che smuovono macigni, sciolgono ghiacciai come fossero nodi, provocano realtà più dei fatti, e creano cambiamento. Una di queste, per me, è famiglia. Quando ce l'hai in ordine, ciascuno al proprio posto e nessuno che manca all'appello, famiglia è quel posto da cui vuoi allontanarti. Dove accetti di tornare per un tempo sufficientemente limitato da permettere partenze commosse e voglia di altri ritorni. E in cui trascorri sereno e al sicuro il tempo di preparazione alla vita. Ma quando qualche pedina del tuo presepio personale salta troppo presto, o si perde per strada senza più fare ritorno a casa (neppure quella della memoria),  allora l'affare si complica e il tuo destino è segnato:  "famiglia" diventa chiunque ami.

Avvenire da non credere: contro femminicidi può solo la fedeltà

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Un’altra donna è morta, uccisa per mano del proprio uomo, entrambi di origini indiane, perché “vestiva all’occidentale”: motivazione ricorrente nei “femminicidi” che coinvolgono coppie (o famiglie) provenienti da paesi culturalmente condizionati da forme di integralismo religioso. In realtà, se leggiamo un po’ di rassegna stampa dedicata alle donne ammazzate solo nell’ultimo anno – interessante, a questo proposito, l’inchiesta curata dal blog del Corriere “La 27ora: che dà la parola agli uomini - l’idea che emerge è che “ ci sono ancora i padri-padroni, che s’aggrappano con la forza dei loro muscoli alla tracotanza di un potere millenario e anacronistico. C’è una minoranza di uomini con disturbi psichiatrici, che andrebbero diagnosticati e curati. Ci sono gli irriducibili che picchiano, schiavizzano, in alcuni casi uccidono e non si chiedono nemmeno il perché”.

Cos'è successo a Brindisi?

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Coincidenze. Il tempo che a volte si accavalla e crea nodi inaspettati. Ieri mattina ero in un paesino vicino Brindisi, poco dopo che quelle maledette bombe a gas esplodessero, lacerando per sempre la vita di Melissa, e portandosi via pezzi di molte altre. Chi può voler male a delle ragazze sedicenni, mi sono chiesta subito. Il pensiero è andato al passato: agli anni di tensione trascorsi al paese, uno dei tanti della vasta provincia salentina. Allora, conoscevo i volti di alcuni dei componenti della Sacra Corona Unita, la mafia pugliese: semplicemente perché li incontravo passeggiando per le strade del paese. Alcuni erano parenti di persone scomparse in casi di lupara bianca, altri erano amici di amici, giovani presi in trappola, ragazzi allo sbando: erano l’ultimo anello dell’ingranaggio, poco più che reclute, dediti al traffico di droga o all’estorsione, e attivi su tutto il territorio, specialmente in quello brindisino.

Omofobia: nessuna buona notizia

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Prima di visitare il sito dell’Istat per leggere i dati raccolti nell’indagine sulla popolazione omosessuale in Italia, oggi - giornata internazionale contro l’omofobia – commetto l’errore di dare uno sguardo a due articoli di sintesi, rispettivamente su la Repubblica e sul Corriere. La tesi proposta sul quotidiano diretto da Ezio Mauro, sarebbe quella che nelle cifre presentate dall’Istituto di statistica - il campione è di 7725 famiglie italiane distribuite in 600 comuni - si anniderebbero molte buone notizie: una sorta di “narrazione parallela” circa l’esistenza di un sentimento popolare che, pur in assenza di diritti formalmente riconosciuti, appare evoluto e progressista.

Io, un progetto a termine

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Tra qualche giorno mia madre compirà 71 anni. Il suo invecchiare è il principale indicatore anche del 'mio' tempo. Soprattutto della provvisorietà di cui lei è diventata negli anni una testimone muta, perché ha smarrito oramai le parole per spiegarla anche a se stessa. Questa precarietà la porto con me come una colpa: mia madre non la comprende fino in fondo, perché è intrisa di quella tipica, severa, ignoranza di chi ha avuto per una vita il posto fisso, una stabilità scontata, conquistata a ventiquattro anni, prima di essere - nell'ordine - moglie e madre.

La verità in "Sex and the City" (eh sì)

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Avete presente l'episodio di "Sex and the City" in cui la rossa Miranda dice una cosa saggia come potremmo aspettarcela solo dal Dalai Lama? Io credo che la strega di Hansel e Gretel sia stata calunniata: la poveretta si costruisce la casa dei suoi sogni, quando arrivano quei due mocciosi e... cominciano a divorargliela.  L'ho amata Miranda perché - in ritardo rispetto alle mie coeve - mentre mi godevo la replica della serie tv che avevo sempre snobbato (io-sia-maledetta) per invidia e perbenismo, e per un pudore di ritorno un po' malsano, stavo proprio ragionando sulle verità capovolte, e su quanto (e con quale slancio), invece, siamo tutti propensi a credere alle favole: quelle che partono con "C'era una volta" e si chiudono infallibilmente con "...e vissero felici e contenti".

Comunione e autoassoluzione

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Ho dovuto rileggere ben due volte la lettera firmata da Don Julián Carrón, presidente di Comunione e Liberazione, pubblicata ieri, a pagina 11 – con un richiamo in prima, taglio basso – su la Repubblica . Due volte, perché la prima è servita a decodificare il famoso lessico ciellino: se non sei uno di loro è difficile orientarsi tra un “carisma” e una “sequela”; ma se poi pretendi anche di leggere tra le righe, allora devi spenderci un po’ di tempo. Sì, perché la Fraternità risulta assai poco fraterna con chi sta fuori (ma questa non è una novità), tanto che occorrerebbe un piccolo dizionario dei sinonimi e dei contrari, confezionato apposta per chi non è, per l’appunto, “alla sequela di don Giussani” (il fondatore del movimento e candidato alla canonizzazione).

Non importa che sei un cane

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Non importa che sei un cane: quando ti ho visto sparire dietro il viale, all'inseguimento ostinato (come sei tu) di quella dannata macchina, ho pensato che non ti avrei più rivisto. Mi sono messa in macchina, sperando di trovarti nel castagneto vicino, o nella piccola valle che riuscivo a coprire con lo sguardo: non c'eri. Poi, presentimenti e paure hanno avuto la meglio: ti vedevo coricato di lato, tramortito, sulla strada provinciale, tutta curve, che circonda il lago. Quella che, nell'inseguimento insensato della macchina, forse avevi preso. Ho iniziato a singhiozzare: mi sono detta, 'cavolo, non piangevo così - come una bambina - da quando se n'è andato mio padre, sempre per colpa di una macchina che si è schiantata dietro la "curva della morte"'.

Il divieto di pensare in proprio

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Siamo condannati a restare per l’eternità figli della Controriforma? Domanda inquietante. E se lo chiede, più o meno con queste parole, Ermanno Rea, nel suo “La fabbrica dell’obbedienza” (Feltrinelli editori). Il che non significa semplicemente che ci affidiamo ancora alla parola dei papi e delle gerarchie ecclesiastiche, ma che abbiamo una specie di propensione naturale – data dal fatto che “noi siamo le nostre esperienze” – a seguire ciecamente una fede, intesa come visione “autoritativa” delle cose del mondo.

Noi su chi vegliamo?

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Saprete tutti cosa significhi essere invasi, completamente invasi, da una tristezza senza rimedio: sì, credo di sì. Stasera è una di quelle sere: in cui non riesco ad abbandonarmi al sonno per paura di perdere il controllo, in cui non riesco a trovare le parole per nominare la perdita di speranza e la delusione che certe volte provo quando qualcuno mi ricorda che non si può tornare indietro, in cui capisco per un attimo (ma poi lo dimentico) che le soluzioni si trovano solo se si cercano bene e senza auto-indulgenza, e che la difficoltà di vivere blocca fino al punto in cui non si decide di giocare la carta della rivoluzione. Ancora: che perdere si può nella vita, senza che, però, questo significhi morire, non del tutto (solo un poco), e che invece ci sono cose da fare, e che non faremmo fosse per noi, perché chi ci ama non muoia.

Quando l'intimità si ritira

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Da qualche giorno, un pensiero mi insegue. Pignolo, puntuale, di quelli che procurano un fastidioso dolorino alla bocca dello stomaco: che fine fa l'intimità quando smette di esistere? dove si rintana? quale destino la aspetta? Pensateci: non è un sentimento che si trasforma, non è un progetto di vita, non è solo pura emotività. L'intimità è la riconquista di uno stato "originario": quando la vivi con qualcuno ti senti di nuotare con lui nel tuo stesso liquido amniotico, quell'acqua che si trovava nel ventre di tua madre, magicamente in grado di proteggerti dal mondo esterno. Non so cosa ne pensiate, ma per me stare in intimità con qualcuno è un po' come stare in uno stato di grazia: forse, l'unico in grado di farti sperimentare un livello altissimo di libertà, "con" un essere che non sia te stesso.

Il “femminicidio” e tutto quello che c’è prima

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È da giorni che ci penso. Da quando, questo femminicidio in corso – come lo chiama Adriano Sofri oggi su la Repubblica – ci “consegna”, ogni due giorni, il corpo ucciso di una donna per mano di un uomo, quasi sempre del suo uomo o dell’ex. Penso a quando ho conosciuto Angela – il nome vero è un altro e non tocca a me dirlo – brillante, bella, sfuggente, ombrosa, lunatica, a un aperitivo con altre amiche. Mentre, nel locale affollatissimo, si ride e si brinda, sperimentando la tipica leggerezza alcolica, Angela fissa come ipnotizzata il telefono che trilla insistente: sms, telefonate, squilli a valanghe. Per un’ora, senza sosta. All’inizio, ignora e sdrammatizza ma poi si adombra, va in bagno e ritorna al tavolo stravolta.

Di calcio e politica

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Non amo il calcio. Nutro tiepide simpatie, puro campanilismo, per il Lecce, e trovo stucchevoli i dibattiti infiniti sulle tattiche messe in campo da questo o quel commissario tecnico. Agli accapigliamenti tra tifosi di squadre diverse, anche amichevoli, reagisco con stupore: mi impressiona sempre quel sovrappiù di passione – verbale e non – che ne viene fuori e dico tutte le volte che andrebbe travasata altrove, nel resto della vita. Ma c’è un momento di una partita di calcio che mi piace e mi emoziona: quando il gioco finisce, e i calciatori che hanno vinto gioiscono e festeggiano la vittoria. A volte compiono gesti belli e forti che, per un attimo, fanno dimenticare l’enorme e scandaloso business che ruota attorno a loro. Io, ad esempio, assisto sempre incantata agli abbracci sportivi tra chi vince e chi perde.

Per essere (un po') felici

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Quando insegui qualcuno, foss'anche un'emozione, il resto del mondo scompare, inabissato in un mare ebete e paludoso. Perché niente conta se non quell'unica cosa lì, a cui siamo dietro come segugi. Dimentichi tutt'intorno, mondo e sogni, mentre fissi solo davanti a te "l'oggetto dei tuoi desideri"; dimentichi di ascoltare la voce del mare, semplicemente, accostando una conchiglia al tuo orecchio; dimentichi tutto quello che sapevi alla perfezione fino a un attimo prima di quell'assurda corsa: che chi si fa rincorrere non ha alcun interesse a essere preso, ed è molto probabile che chi insegue, non voglia affatto finire la propria corsa. Perfettamente complici nel darsi reciproca insoddisfazione.

La farfallina di Belen e la libertà di cambiare canale

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La farfallina di Belen Rodriguez appassiona gli animi più depressi e vivacizza il dibattito pubblico e privato di questi giorni: non solo, e ci sta, quello maschile – che clichè vuole: avvinto, inebetito, da encefalogramma piatto – ma soprattutto quello, indignato, di opinion leader e custodi della moralità pubblica. In principio, ha tuonato Lucia Annunziata: “Belen è bellissima e simpatica ma certo quel suo sventolarsi la gonna è stato più sconvolgente del sermone di Celentano ”. Un passo indietro. Lo sventolamento ha, infatti, sollevato l’atroce dubbio che la showgirl non avesse indosso le mutandine – sì, avete capito bene – dal momento che il tatuaggio dell’insetto tanto caro a Silvio Berlusconi (ricordiamo che l’ex presidente del Consiglio amava regalare a Olgettine e dintorni, spille e spillette a forma di farfalla), è posto su centimetri di pelle, generalmente, coperti dall’indumento intimo.

Risparmiamo, a San Valentino

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Rob Brezsny, il mitico astrologo di Internazionale, dà i compiti per casa, raccomandando, nella settimana in cui ricorre san Valentino, di scrivere "una bella lettera d'amore a se stessi". E così - da grafomane consapevole - ripensavo a tutte le lettere della mia vita: scritte a volte per vera passione, per sentimento, per l'indefinibile desiderio di creare ponti, di trattenere a me chi era già altrove; scritte anche per disperazione, per chiedere scusa, per urlare 'io esisto', per stupido egocentrismo (eh sì, le peggiori!), per l'istinto di non arrendersi alla fine.

Bolle e il "degrado" dei senzatetto

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La prima volta che venni a Roma, quindici anni fa, fu per tre giorni, accompagnata da un amico che nella capitale aveva vissuto gli anni dell’università. Al nostro arrivo – era sera, molto tardi – passammo velocemente per via Marsala, la strada che affianca la stazione Termini, la stessa strada che, anni dopo, avrei percorso centinaia di volte, avendo scelto come “base” il quartiere di San Lorenzo. E nonostante il decennio romano, appena festeggiato, i ricordi di quella sera sono rimasti come scolpiti nella mia memoria, tanto fu intenso lo stupore che mi colse: c’erano, lungo il marciapiede che scorre accanto alla stazione, riparati sotto le pensiline, decine di corpi, messi uno dopo l’altro, come in una corsia di ospedale ma semplicemente infilati in dei sacchi a pelo, oppure avvolti in coperte e giornali, riposti su un letto di cartone. Accanto a loro, spesso, riuscivo a distinguere alcuni contenitori di Tavernello oppure buste di latte.

Avvenire, Pisapia e la Costituzione prêt-à-porter

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Secondo Avvenire la decisione del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, di destinare anche alle coppie di fatto i fondi anti-crisi, violerebbe la nostra Costituzione. A scrivere sul quotidiano dei vescovi il commento critico è Francesco Riccardi: “La giunta comunale ha pensato bene (anzi male) di agire facendo leva sulla definizione di “famiglia anagrafica”, così come ridisegnata dalla legge del 1989. Questa prevede – al solo fine, amministrativo, di “fotografare” le situazioni di fatto – che siano registrate sullo stesso stato di famiglia «l’insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozioni, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti…»”.

Diario da Istanbul

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Istanbul, 23 gennaio 2012 – Sono a Istanbul per una breve vacanza, alla ricerca di una pausa dal mio mondo, in una città che sa essere molte cose diverse, tutte insieme. “Una città fatta di contrasti”, mi avevano avvisata alcuni amici, e questo ha reso la partenza ancora più eccitante. Abituata come sono, al mio “angolo di vita” tutto occidentale, apparentemente compatto, monodimensionale, questo posto si è rivelato ricco di sorprese: ho scoperto “la Istanbul” globalizzata, con i suoi Starbucks Coffee, che sarebbe potuta essere un pezzo di New York o Parigi. Dove giovani uomini e donne alla moda popolano la notte, per le strade eleganti e i locali di lusso; e “la Istanbul” dei venditori ambulanti di çay (tè), dei chioschi di Kebab e dei ristoranti tradizionali: qui è più facile incontrare gruppi umani monosessuali, vestiti con abiti tradizionali e dall’età indefinibile. Ma è la “terza” Istanbul, che miscela perfettamente le prime due, la più interessante. Quella che r

Finalmente libera. Domani.

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"Pazienza", esclamò lei alzando lievemente le spalle. Lo faceva sempre quando sentiva che la situazione stava per sfuggirle di mano. E più aveva paura - di domani, della solitudine, del freddo - più assumeva quest'aria di autosufficienza, di "fortissimamente volli", di chi avrebbe vissuto  felicemente anche su una gamba sola, mantenendo l'equilibrio, il respiro e il pianto in gola. L'altra frase dei momenti critici, davvero critici, era "Mica ti devono amare per forza, ecchecazzo". Ma qui la superficie facciale subiva come una leggera scossa tellurica, e le crepe affioravano prepotenti, fino a sconfinare in singhiozzi patetici e rumorosi.

Maschere

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Le maschere che mi fanno più paura sono quelle di cui dimentico l'esistenza. Quelle che indosso come una seconda pelle, quelle che metto quando ho paura: di perdere, di soffrire, di morire. Sono le maschere che porto sempre con me: alle riunioni di lavoro, per ostentare sicurezza, a quelle col mondo per il terrore di essere fottuta. O vinta. Sono le mie vere nemiche proprio perché sembrano complici e sempre disponibili a regalarmi vittorie. O rivincite. Non imparo mai: la consapevolezza è poca cosa rispetto alla forza della paura. Eppure, se per un attimo decidessi di deporre una delle mie mille maschere, avrei un po' di pace, di riposo, persino di piacere. Non so se potrò mai essere amata per quello che sono. Perché non capisco davvero quale amore sia possibile con tante difese addosso, quante una sola persona proprio non è in grado di sopportare per tutta una vita. Sono troppe, una per ogni paura. Per ogni preghiera. Per ogni speranza. Per ogni solitudine.