Avvenire da non credere: contro femminicidi può solo la fedeltà
Un’altra donna è morta, uccisa
per mano del proprio uomo, entrambi di origini indiane, perché “vestiva
all’occidentale”: motivazione ricorrente nei “femminicidi” che coinvolgono
coppie (o famiglie) provenienti da paesi culturalmente condizionati da forme di
integralismo religioso.

Dunque,
emerge un quadro generale tutt’altro che semplificabile in una sola motivazione
o in un unico “profilo” di “maschio-picchiatore-e-killer”.
Un
editoriale pubblicato lo scorso 18 maggio e passato a dire il vero un po’ in
sordina, nonostante
la tesi anacronistica,
stupefacente, tutta contenuta nel titolo: “Fedeltà. Per tutti l’unico antidoto
alle passioni criminali”. Il corsivo è a firma di Maurizio Patriciello.
Un prete impegnato, don Maurizio,
parroco della diocesi di Aversa, che scrive sul quotidiano dei vescovi ed è
attivo soprattutto sui temi che interessano il territorio campano,
dall’immondizia alla camorra, tanto da essere stato citato da Roberto Saviano
in Gomorra.
Ora, tu leggi il titolo e rivolgi
a te stesso, intimamente, un invito alla cautela, perché - pensi subito - nella
sintesi potrebbe essere andata dispersa qualsiasi traccia di complessità
dell’analisi.
E, invece, ecco lungo quale
canovaccio si sviluppa l’analisi di Patriciello: uno dei motivi per cui un uomo
ucciderebbe la propria compagna – il principale – è la gelosia; non un pizzico
di gelosia, ché quello andrebbe pure bene, ma l’esplosione di una vera patologia,
del tutto irrazionale. Provocata dalla paura (dell’uomo) di essere abbandonato,
di restare solo. E si sa, argomenta Patriciello, la convivenza è difficile e,
per questo, occorrono molta pazienza e intelligenza per difendere un’unione.
Dunque, la tesi: “Anche il tradimento più insignificante, è un veleno mortale
per la vita di coppia, e può indurre a macchiarsi di atti insensati”. Ma se è
vero che “nulla può attenuare la responsabilità di un atto di violenza, e ancor
più se contro la donna”, “non è giusto ingannare il prossimo facendo balenare
l’idea che il tradimento potrebbe essere un gioco”. Poi conclude: “La fedeltà è
il valore indispensabile per la famiglia e la società”.
Caro Patriciello, a lungo ho
creduto che Giuda avesse tradito Gesù, così almeno mi raccontavano al
catechismo. La classica versione semplificante - e tremendamente lontana dalla
realtà - che impone l’esistenza di una vittima e un carnefice (come scrive lei,
“chi tradisce e chi è tradito”) e secondo cui la vittima è solo vittima e il
carnefice – povero carnefice! – è un tizio brutto e cattivo.
Da adulta ho dovuto “scusarmi”
intimamente con Giuda: perché l’apostolo accusato di uccidere Gesù, in realtà,
aveva accettato di sacrificarsi “perché si compisse la Parola”.
È vero, il tradimento è un
dramma: l’eterno dramma che si svolge nel passaggio dal vecchio al nuovo. E
ogni nuova conoscenza, che sempre si realizza in ambito relazionale, implica un
traditore ed un tradito.
È dunque anche un’occasione,
un’opportunità a ben vedere: il traditore uccide simbolicamente il tradito,
consegnandolo al nuovo, e lo fa perché ha ucciso prima ancora se stesso: al
tradito non resta che accettare questo passaggio.
Ora, la “narrazione” che lei ha
proposto, la stessa della Chiesa cattolica, quella dell’amore che è come un
uccello che ha bisogno di entrambe le ali per volare, è un mantello che lei
adagia sopra una precisa visione della società: quella secondo cui la fedeltà è
funzionale alla conservazione della famiglia anche quando l’amore si dà per scontato
(o non c’è più: non perché sia finita la passione ma perché sono venuti meno
rispetto, condivisione, comunione d’intenti).
È una visione che ha una propria
dignità in un’ottica di conservazione dello status quo, ma che non può essere data in pasto alle persone
per spiegare la follia omicida di chi ammazza la propria donna – compagna, ex
fidanzata, moglie, amante: femmina – “per gelosia”. Ma pur ammettendo che si
tratti di una “patologia”, lei conclude che la fedeltà è l’unico antidoto
contro la violenza.
Stupefacente la contraddizione:
se uno è folle, malato di gelosia, e per questo vede ovunque un pericolo, in
ogni piccolo segno un potenziale rischio di abbandono, vuol dire che
rinsavirebbe a fronte di una condotta integerrima della propria compagna?
Secondo lei, non è la stessa follia ad armare la mano di un uomo malato e non
in grado di distinguere la realtà dalle proprie proiezioni?
Non riesco a farmi capace di una
visione tanto distorta delle cose. Di una lettura così distante dalla realtà e
che, nonostante questo (proprio per questo?), trova spazio nel primo quotidiano
cattolico del Paese.
Una visione in cui, mi perdoni,
l’amore – termine tanto abusato nel suo pezzo - non c’entra un bel nulla. “La
chiesa non è mai stata interessata all’amore, e infatti, storicamente, il
matrimonio non avveniva per amore ma per volontà delle famiglie”, mi spiegava
tempo fa il teologo conciliare Enrico Chiavacci.
Don Maurizio, bisognerà che prima
o poi la Chiesa, di cui lei è un ministro, faccia i conti con un enorme
problema culturale che invece continua a ignorare.
Il dramma della violenza sulle
donne, degli omicidi di donne commessi da uomini, non è condizionato dal
binomio fedeltà-tradimento, questo sì funzionale a una visione della società –
in termini di autoconservazione - propria dell’istituzione millenaria che lei
rappresenta. Ma da un nodo antico che la sua Chiesa conosce bene: quello del
potere. Il potere di chi si sente debole ed è abituato ad essere forte, il
potere che ha paura di perdere, il potere di chi è in crisi e rinserra le fila,
il potere di chi ha da sempre un ruolo e lo sta per smarrire. Il potere:
parliamone, ma temo che alla Chiesa convenga parlare di tradimento e fedeltà.
(micromega.it)
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