Diario da Istanbul

Istanbul, 23 gennaio 2012 – Sono a Istanbul per una breve vacanza, alla ricerca di una pausa dal mio mondo, in una città che sa essere molte cose diverse, tutte insieme. “Una città fatta di contrasti”, mi avevano avvisata alcuni amici, e questo ha reso la partenza ancora più eccitante.
Abituata come sono, al mio “angolo di vita” tutto occidentale, apparentemente compatto, monodimensionale, questo posto si è rivelato ricco di sorprese: ho scoperto “la Istanbul” globalizzata, con i suoi Starbucks Coffee, che sarebbe potuta essere un pezzo di New York o Parigi. Dove giovani uomini e donne alla moda popolano la notte, per le strade eleganti e i locali di lusso; e “la Istanbul” dei venditori ambulanti di çay (tè), dei chioschi di Kebab e dei ristoranti tradizionali: qui è più facile incontrare gruppi umani monosessuali, vestiti con abiti tradizionali e dall’età indefinibile. Ma è la “terza” Istanbul, che miscela perfettamente le prime due, la più interessante. Quella che riesce a trovare una sintesi tra Oriente e Occidente, Islam e Cristianesimo. Dove la musica techno dei locali si alterna al canto dei muezzin diffuso dagli altoparlanti dei minareti.
E dove, per strada, è frequente incontrare giovani donne truccatissime, col capo coperto da sete colorate, in jeans.
Non finisce mai di stupirmi questo contagio. Che prima di essere estetico e di stili di vita, è culturale e filosofico. L’altro giorno sono entrata nella bellissima Moschea Blu: ho dovuto levare le scarpe sotto lo sguardo severo della guardia che indicava gli appositi sacchetti di plastica. Dentro, un certo numero di turisti fotografa le ceramiche color cielo, e la cupola enorme da cui scendono i cavi di sostegno ai giganteschi lampadari. Gli uomini pregano come se attorno a loro ci fossero solo nulla e silenzio: inginocchiandosi ripetutamente sulla moquette bordeaux, nello spazio riservato loro e interdetto ai visitatori di passaggio. Cerco con gli occhi le donne, come mi è accaduto di fare spesso in questi giorni: le trovo così intense e solide. Per nulla sottomesse o arrendevoli: affascinanti. A un certo punto, eccole!
Rintraccio con lo sguardo un piccolo cartello “Women’s section”, affisso su un pannello di legno e vimini che divide lo spazio dedicato alle donne in preghiera dal resto della Moschea: ne intravedo solo le sagome. Chiediamo, io e un’amica, il permesso di entrare a una donna appena uscita: ci sorride e fa sì con la testa. Ci inginocchiamo: restiamo in silenzio per un tempo indefinito, protette in quello spazio tutto nostro e non solo loro, raccolte in noi stesse, nei nostri pensieri, come nuotando in quel fiume contagioso di spiritualità antica, almeno per noi straniere. Siamo in compagnia di ragazze, di giovani donne, di quelle che potevano essere le nostre madri e nonne. Tutte mescolate: alcune pregavano, altre leggevano, altre ancora meditavano. Il momento più bello di questo viaggio.
Pensavo di trovare un mondo diviso per blocchi, separato, rigido. E invece ne ho incontrato uno che ha sì regole precise, come quelle che riguardano la vita femminile e quella maschile, ma con un’incredibile armonia al proprio interno, e una grande fierezza. Soprattutto negli occhi delle donne. Dai miei, solo lacrime quando sono dovuta uscire fuori di lì.
(micromega.it)

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