Finalmente libera. Domani.

"Pazienza", esclamò lei alzando lievemente le spalle. Lo faceva sempre quando sentiva che la situazione stava per sfuggirle di mano. E più aveva paura - di domani, della solitudine, del freddo - più assumeva quest'aria di autosufficienza, di "fortissimamente volli", di chi avrebbe vissuto  felicemente anche su una gamba sola, mantenendo l'equilibrio, il respiro e il pianto in gola. L'altra frase dei momenti critici, davvero critici, era "Mica ti devono amare per forza, ecchecazzo". Ma qui la superficie facciale subiva come una leggera scossa tellurica, e le crepe affioravano prepotenti, fino a sconfinare in singhiozzi patetici e rumorosi.

Poi, ricominciava tutto da capo, riavviava il nastro, rifacendo spallucce solo per il piacere di pensarsi capace di una forza che sapeva di non avere. Ed ecco che finiva per crederci: sì, tutto sarebbe stato possibile, anche mandare affanculo vecchie paure, attese vane e annettere quel po' di futuro che le sarebbe bastato per mettere a bada l'ansia di oggi. A questo punto, quasi sempre, era capace di un crollo più rovinoso del solito, definitivo direi.  Solo allora riacquistava l'abilità di un sorriso: piccolo atto di benevolenza, che la riconciliava (un po') con se stessa.

Ormai la maschera era giù. Il vantaggio era quello di non dover fare più sforzi per sembrare quella che non era. Poteva riposare: non era necessario fingere davanti al mondo nessuna autosufficienza, nessuna forza, non senza vergognarsene almeno. E nessuna faccia avrebbe più temuto nulla - ferite, cattivo gusto, ostinazione altrui, rabbia, indifferenza - perché in mano avrebbe avuto solo la propria piccola, insignificante, ridicola verità. Che nessuno poteva mai deridere.
Ma soprattutto: lei sarebbe stata costretta ad aprire quella fottuta mano. E la verità, finalmente, volare via, lontano. Lasciandola, libera.

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