Balo come King Kong e le scuse ridicole
Mario Balotelli raffigurato come King Kong appeso al Big Ben e bersagliato da palloni che lo
investono come missili, quelli della Nazionale inglese: questa la
vignetta a firma di Valerio Marini, pubblicata ieri sul quotidiano
sportivo più letto d’Italia, la Gazzetta dello Sport. Su Twitter,
immediatamente, segue un coro di cinguettii di protesta, molti chiedono
il boicottaggio del giornale rosa.
L’attaccante del Manchester City, che
indossa la maglia numero nove della Nazionale italiana, di origini
ghanesi ma preso in affidamento da una famiglia bresciana, è da sempre
molto criticato a causa del suo brutto carattere.
Il repertorio è tristemente ricco: si va
dai banali “buu” al lancio delle banane, da “Balo negro ed ebreo” a
petardi e saluti nazisti.
Il suo ingresso in campo, durante la
penultima partita agli Europei 2012, quella contro l’Irlanda – la stessa
contro cui segna il 2-0 in mezza-rovesciata – viene
accompagnato dai fischi del pubblico. L’Uefa apre subito un’indagine
senza, però, adottare alcun provvedimento disciplinare: i telecronisti
si affrettano subito a sottolineare, con una certa sollecitudine, che
quei fischi nulla hanno a che fare con la pelle di super Mario,
piuttosto, col suo caratteraccio e con i tanti atteggiamenti
antisportivi dell’ex giocatore interista dall’aria strafottente e
ribelle. Dello stesso tenore le “chiacchiere” sui social network: Balo
sembrerebbe “stare sulle scatole” a moltissimi e per questo, è giusto
che si becchi insulti e fischi.
Senza essere
appassionata di calcio, tifosa e tanto meno esperta dei suoi meccanismi,
mi chiedo se un clima così ostile – fosse anche determinato dal
comportamento di un calciatore che oltre ad essere super pagato, è anche
super problematico – non sia in qualche modo da censurare. A
prescindere. Mi chiedo che senso abbia l’indignazione di oggi, rivolta
contro una vignetta di cattivo gusto, certamente inopportuna viste
queste premesse, se durante tutto il campionato sportivo, per il resto
dell’anno, l’atteggiamento più ricorrente è quello leggero e
giustificazionista.
Infine, la satira è
satira fino a prova contraria. E cioè fino a un limite che non può
essere determinato a priori né una volta per tutte, ma che è dato dal
buon senso e da una sensibilità “culturale”. A quanto pare, né l’uno né
l’altra sembrano essere doti molto diffuse in certi ambienti, lo
dimostrano le scuse, strette in un trafiletto ridicolo, che oggi la
Gazzetta dello Sport pubblica a pagina 23: “La vignetta non è delle
migliori, il giornale è di chi legge, e se il lettore l’ha trovata
offensiva ce ne scusiamo…”.
Possiamo limitarci a dire
che se la sono sbrigati con poco.
E che la direzione di un
quotidiano che, prima, permette la pubblicazione di una vignetta in cui
un giocatore di colore – da sempre il bersaglio preferito della feccia
delle tifoserie calcistiche – è paragonato a uno scimmione, e poi,
chiede scusa scaricando la responsabilità sul vignettista e rigettando
come assurde le accuse di razzismo, sta tutto dentro questo “brodo di
coltura”. Di cui il razzismo è una conseguenza non una premessa, certo:
il sintomo di un clima fatto di analfabetismo culturale, di indulgente
complicità, di condiscendenza.
“Il giornale è di chi
legge”, caro direttore della Gazzetta, non significa nulla: perché lei
ha una responsabilità in più che dovrebbe esercitare, non una in meno.
Esattamente perché tra i lettori, c’è anche chi chiama “negro ebreo”
Balotelli, c’è chi lo fischia perché di colore (con la scusa che è
“stronzo”), chi fa spallucce di fronte agli insulti. C’è anche un
pubblico più giovane: che non sa neppure distinguere tra razzismo e
scanzonate battute da stadio.
C’è tutto questo e,
purtroppo, molto altro.
C’è, anche, chi sostiene
una tesi paradossale: Balotelli, in fondo, è uno che guadagna milioni di
euro per prendere a calci un pallone e “chissenefrega” se deve subire
qualche insulto ogni tanto. Sono altri quelli da difendere, altri da
tutelare. Ecco. Io credo che questa sia, per paradosso, la tesi più
pericolosa. Se io non sono capace di combattere una battaglia per tutti –
per il ragazzo del Bangladesh che vende occhiali finto-Prada, per
l’operaio dell’Est che lavora in nero in un cantiere, per il giocatore
che ha la Ferrari e si comporta come un bambino, con gli strumenti che
ha a disposizione, contro l’ostilità degli altri – allora io combatto
una battaglia già persa in partenza.
E noi, che ci sollazziamo
su Facebook, che twittiamo il nostro disagio a corrente alternata,
siamo in parte responsabili di una regressione collettiva.
(micromega.it)
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