Un corpo senza testa


Non aggiorno questo blog da troppo tempo. La ragione è doppia e incide tanto sulla vita privata che su quella professionale.
Dal 2008 lavoro come giornalista freelance. All’inizio è stato molto esaltante e avevo la sensazione di essermi riappropriata finalmente del mio tempo, esterno ed interno. Quando gli effetti reali della crisi finanziaria hanno iniziato a picchiare giù duro, i collaboratori esterni sono stati i primi a saltare e ho dovuto fare i salti mortali per pagare affitto e bollette: negli ultimi tempi, la situazione economica è peggiorata e per la mia serenità, ho aumentato l’impegno negli altri lavori “di rinforzo”. Quello attuale è di “coffee specialist” in una boutique del caffé dove, per 21 ore a settimana, spiego miscele pregiate di arabica e robusta, i modelli delle macchine e offro caffé in degustazione ai clienti che vengono ad acquistare.
Ho ricevuto, così, i miei primi buoni pasto, per la prima volta ho un badge che utilizzo all’ingresso e all’uscita, una divisa che mi rende pressoché uguale agli altri colleghi, e finalmente uno stipendio che – cascasse il mondo – arriva il 27 di ogni mese.

E dunque, da alcuni mesi, a quanti me lo chiedono – dopo l’ennesimo “no, grazie, sono impegnata”, in risposta agli inviti, spesso, rivolti i sabati e le domeniche, giorni per me sempre lavorativi – ho dovuto chiarire: “Ora per campare, lavoro in boutique mentre per hobby, scrivo”, pagata ogni tre mesi, mai, quando capita.
Questa lunga digressione non è inutile come sembrerebbe: la biografia di ciascuno è assai poco funzionale all’analisi del proprio tempo ma significativa per leggere alcune tendenze. Apparentemente, non aggiunge né toglie nulla ai dati che rappresentano i fenomeni: parliamo di grandi numeri e, si sa, nelle statistiche tutto si confonde, non ci sono valori aggiunti, medaglie conquistate sul campo, vite più meritevoli di altre. È giusto così. E tuttavia, solo quando, banalmente, vivi certe cose, e non ti limiti a spiegarle, tutto si chiarisce.
È stato, infatti, molto particolare vivere questo passaggio politico “nei panni” di commessa: sentire i commenti ai fatti del nuovo governo dei colleghi, discutere della crisi istituzionale e delle riforme con perfetti estranei, in pausa pranzo (sempre solitarie, a causa dei turni), ascoltare in silenzio il pensiero degli altri senza avvertire alcuna necessità di intervenire: i giornalisti, un parere, devono esprimerlo per forza (purtroppo!) mentre le commesse, anche no!
Soprattutto, ho percepito molto lucidamente quanto sia giudicato irrilevante, dalla gente comune, dai lavoratori, dalle famiglie, dai pensionati, dai giovani – più in generale – gran parte del dibattito pubblico che appassiona addetti ai lavori, e dunque gli stessi giornalisti che passano il tempo a twittare-chiacchierare-accapigliarsi, i politici e gli annoiati commentatori di ogni risma.

La constatazione non muove affatto da premesse che vorrebbero simpatizzare con una certa demagogia di ritorno – chi decide cosa sia rilevante e cosa invece no? – né intende porre la “ggente” come soggetto di un pensiero collettivo, piuttosto è la rappresentazione – direi – a parole, di fatti reali.
Le persone con cui lavoro, che in questa fase – per necessità – sono anche quelle con cui scambio, seppur velocemente, battute e riflessioni, vivono in affitto come me, e come me, hanno come unico welfare in cui confidano, quello della famiglia d’origine: genitori, in gran parte, pensionati. Fa ridere, dunque, tutto questo dibattito sull’Imu, populista e inutile. Imbarazza questo strombazzamento che si fa dei tagli ai costi, dell’azzeramento dei privilegi, per poi rimangiarsi tutto, imbarcando quaranta (40!) tra sottosegretari e viceministri. Ancora: è stupefacente l’ultima querelle di una deputata come la Biancofiore che parla dei gay come se affrontasse un argomento di scuola, con lo stesso approccio che si potrebbe avere rispetto alle guerre puniche o alla controriforma cattolica.
Mentre fanno piangere, (che poi alla fine è lo stesso), le paginate sul ministro per l’Integrazione, Cecile Kyenge: perché testimoniano che la politica è molto più arretrata della realtà in cui viviamo, dove l’integrazione è una pratica quotidiana, splendidamente necessitata, direi.

Non è vero che siamo un Paese arretrato socialmente: lo siamo, in proporzione, molto di più politicamente. Osservo che la testa è rimasta più indietro rispetto al corpo, che al contrario si è dovuto adeguare ai processi reali di trasformazione. La testa appare più lenta, ritardataria, insegue altre logiche: non quelle del corpo a cui, pure, dovrebbe essere collegata.
Un corpo senza testa, non può farcela, lo sappiamo bene. Ma una testa slegata dal proprio corpo, non ha chance di vita. Dobbiamo riconnetterci, oppure accettare la decapitazione e morire definitivamente.
(micromega.net)

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