Su Grasso e Boldrini e la retorica del cinismo


Tredicenne, frequentavo assiduamente un gruppo di ragazzi di età diverse: il sabato sera si discuteva di fede e politica, delle nostre vite e del futuro. Una sera, un amico sulla trentina ci annunciò il proprio ingresso nell’allora Partito Popolare, aggiungendo che non escludeva di candidarsi alle vicine elezioni.
A quel tempo, dentro di me, si era fatta largo la convinzione (più che l’idea) di essere comunista. E così, rispondendo a quel mio amico che si aspettava da noi fiducia e incoraggiamento e per cui nutrivo un attaccamento profondo, presi la parola. Dissi che non avrei potuto sostenerlo in quell’impegno, perché sentivo, dal più profondo del cuore, di voler mettermi a servizio dei più deboli, e di voler “entrare a fare politica nel partito comunista”, l’unico che ai miei occhi si battesse per proteggere i più deboli, quelli senza voce, i diseredati.

Inutile aggiungere che a quella chiarezza rispetto al futuro – che mi consentiva di scolpire come sulla pietra le mie idee “politiche” e di tagliare con l’accetta i miei sogni di filantropia globale – sarebbe seguita un’inquietudine tanto profonda quanto resistente, che mi ha afflitta fino all’altro ieri: il prezzo da pagare per quella precoce weltanschauung che divenne subito barzelletta tra i miei amici.
Mi scuserete per questa nota biografica, ma ieri, durante i due discorsi dei neo-eletti alla presidenza di Camera e Senato, ho rivissuto il ricordo imbarazzato di quel mio manicheismo pre-adolescenziale. E così, leggevo con lo stesso stupore tanto i commenti di amici che benedicevano gli incarichi di Laura Boldrini e Pietro Grassi come gli assetati che, nell’attraversamento del deserto, intravedono finalmente una fonte d’acqua, quanto le battute un po’ ciniche, un po’ disincantate, di chi liquidava quelle loro parole come codificazione di una retorica terzomondista (o legalitaria) dei buoni sentimenti, del tutto ininfluente rispetto all’urgente necessità del Paese di un governo che realizzi le benedette riforme istituzionali.
E allora, stretta tra questi due poli – che sono anche due ragioni, due verità, due visioni, due culture anche – mi sono chiesta: ma dobbiamo proprio scegliere? Sì, dobbiamo proprio decidere se schierarci col cinismo o con la retorica? Non sembrano anche a voi, entrambe, letture limitate? Entrambe rigide? Entrambe, allo stesso modo, riduttive? Quale determinismo ci costringerebbe, allora, a optare per l’uno o per l’altro?
“Dovremo imparare a capire il mondo con lo sguardo aperto di chi arriva da lontano, con l’intensità e lo stupore di un bambino, con la ricchezza interiore inesplorata di un disabile”, ha detto a un certo punto Laura Boldrini.
E, in fondo, perché emoziona tanto questa frase, scritta e condivisa mille volte sulle bacheche social? Non tanto per il contenuto “buono”, a voler ripescare le categorie di giudizio un po’ “bambine” ma sempre tanto efficaci, quanto per il fatto che ad averla pronunciata non sia stata Anna Finoccharo (siamo certi che anche la senatrice del Pd avrebbe potuto chiamare a raccolta bellissime parole, ché tanto non costano nulla) ma una persona con la storia della Boldrini. E non occorre essere di sinistra per comprendere che una verità vissuta colpisca fortissimo l’interlocutore, mentre una verità detta possa lasciarlo bellamente indifferente.
È una frase – come quella sui “troppi morti custoditi nel mar Mediterraneo” – che apre a uno schema nuovo non – come vorrebbero alcuni – perché non fossimo già convinti, ad esempio, del dramma che si consuma sulle odiose carrette del mare, ma perché a “giocare” quello schema è, oggi, una persona che conosce profondamente quel mondo e che non si limita a chiamarlo solo per nome come molti dei nostri politici saprebbero fare benissimo.
“Non serve alle riforme, non serve al funzionamento della democrazia”, alcuni sostengono. Tanto più che questo “inizio” della vita parlamentare potrebbe essere solo l’inizio di nulla, senza una maggioranza che dia fiducia a un governo (che faccia le riforme).
A queste argomentazioni, che poggiano su una base di verità, naturalmente, opporrei che la democrazia di un Paese – prima di essere messa in moto nel suo “ingranaggio istituzionale” e nella riscrittura di quelle regole che, sole, possono garantire la vitalità dei suoi meccanismi senza squilibri e disfunzioni – debba essere “testimoniata” attivamente da alcune figure garanti, che segnino anche una forte soluzione di continuità rispetto al passato.
Il rinnovamento, in questa chiave, non può riguardare solo i “giocatori” ma deve investire anche gli arbitri. E sarebbe stata, quella sì, solo retorica nuovista, se di quei ruoli di garanzia si fosse continuato a fare merce di scambio, oggetto di negoziazione per accordi più ampi, in stile “vecchia politica”. Tuttavia, in quel caso – siamo certi – i più pragmatici tra noi avrebbero esclamato: “Si spartissero le poltrone come credono, purché facciano le riforme subito”. Con lo stesso disincanto. La democrazia avrebbe funzionato più velocemente, forse?
(micromega.it)

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