Una tranquilla notte di regime

“È una tranquilla notte di Regime”, inizia a raccontare Stefano Benni nel suo Baol. Non stanchiamoci di ripeterlo anche noi – tutti – “pubblico pagante”, oramai in attesa impaziente di un vero cavaliere (con la “c” minuscola) che, anche senza armatura, ci salvi: dal partito “Forza Gnocca” e dalle stronzate in circolazione, dagli intellettuali alla Giuliano Ferrara, che rilasciano patenti di moralismo a buon mercato, perché siamo noi che non capiamo, noi gli imbronciati, i queruli, i falliti e anche un po’ frigidi; noi gli inutilmente indignati.
“Che tristezza!”, esclamano dal canto loro i giornalisti radical-chic alla Giuseppe Cruciani: “A me gli indignati fanno schifo”. Ha chiosato venerdì scorso nel suo programma “La Zanzara”, su Radio24. Dopo che un’ascoltatrice, più brillante e spiritosa degli altri, ha chiamato in trasmissione per dire: “Berlusconi ha avuto un’intuizione inconscia, di tipo junghiano: siccome ha fondato un partito del cazzo non poteva fare altro che pensare a un partito della gnocca”.

Cosa ci resta come antidoto, dunque? L’indignazione fine a se stessa? Lo stupore di chi sente di non appartenere alla stessa “narrazione” politica e culturale”? Forse.
Lo racconta con altre parole Philip Roth: “Per imparare a indignarsi bisogna combattere e sentire dolore”, fa dire al protagonista del suo romanzo “Indignazione”, lo scrittore americano. Che chiude quelle pagine con un monologo struggente: “Alzatevi, voi che rifiutate di essere schiavi! L’indignazione riempie i cuori dei nostri concittadini”. Qui, invece, qualcuno dice che non serve indignarsi, perché indignarsi “vuol dire tirarsi fuori da quello che accade. Non partecipare mai fino in fondo” (http://www.wittgenstein.it/2011/03/03/indignatevi-meno/).
Eppure qualcosa non torna. Nel giorno dei funerali delle quattro donne, operaie di Barletta, lavoranti in nero mentre il governo combatte la propria crociata contro l’evasione fiscale, il presidente del Consiglio se ne è uscito con l’unica cosa sensata che abbia detto negli ultimi 12 mesi di governo: quella di voler chiamare con il suo vero nome il partito del Popolo delle Libertà, fondato – per l’appunto – sul potere della gnocca (uno sdoganamento senza precedenti nel nome della lotta all’ipocrisia moralista della sinistra, direbbe lui stesso). Lì, molti cortigiani seriosi hanno alzato il ditino in segno di (flebile) dissenso, si sono scomodati registi della statura di Ermanno Olmi che è arrivato a parlare di “pìetas” nei confronti di Berlusconi, fino a uno sconcertato Oscar Giannino che, non nella compravendita dei deputati, non nei metodi di reclutamento delle deputate-vallette, ma nella pseudo-boutade del Partito della Gnocca, ha scorto un pericoloso screditamento, “Mi priverà del diritto di essere credibile”, ha declamato l’editorialista economico.
“Siamo affamati”, inciterebbe la buonanima di Steve Jobs: ma affamati di cose – se vogliamo – piccole, concrete ma vitali: di buona politica, di civiltà, di partecipazione, di cultura di governo. Siamo affamati di sogni realistici (come quello di avere una classe dirigente dignitosa e fattiva). Sempre Stefano Benni scriveva in Elianto, “Ci fu una grande battaglia di idee e alla fine non ci furono né vincitori, né vinti, né idee”.
Mi sarebbe piaciuto un altro finale, ma è l’unico che possiamo permetterci. Oggi
(MicroMega.it)

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