E la “passeggiata” tra gli indignati è andata a finire “a schifìo”

Abbiamo incrociato i nostri sguardi per un solo secondo: camminavamo, io e il mio cane, ai lati del corteo che sfilava in quel momento per via Labicana, poco prima che iniziasse la guerriglia urbana. Mi aveva attirata la sua sagoma rotonda, il volto coperto di nero tranne gli occhi: verdi, vitrei. Due fessure che si muovevano a scatti, a una velocità incredibile: era chiaro che l’infiltrato, un black bloc, aveva una soglia di attenzione elevatissima, tipica di chi sta per compiere un’azione importante. Istintivamente ho arretrato per allargare il mio angolo visuale. E ho visto tutto a rallentatore. Insieme a lui, altri incappucciati si muovevano in direzione contraria al corteo: a fare loro da richiamo, lo scoppio – a pochi metri – di una bomba carta. Una specie di segnale: decine di ragazzi si sono staccati dalla folla di manifestanti, e ricoprendosi il volto, si mandavano segnali senza parlarsi.
Ho provato a “fermare” gli sguardi: erano esaltati, facevano branco – come le bestie – e come loro sembravano mossi da un istinto superiore a qualsiasi ragione. Ho avuto paura. Ma ho cercato di osservare come si muoveva tutto l’insieme, in quel preciso momento in cui, quel corteo – inizialmente pacifico, e allegramente rumoroso, si stava trasformando in qualcosa di diverso.
La prima reazione della folla è stata un panico contagioso mentre si sentivano, troppo vicine a noi, esplosioni ripetute e si sollevava un fumo nero fittissimo. Le sirene della polizia diventavano sempre più assordanti.
Ho ripiegato in una stradina, perché il mio cane ha iniziato a correre per allontanarsi dagli scoppi. Con me, molte persone di tutte le età. Le osservavo: a un certo punto, una ragazza è caduta e il suo compagno l’ha fatta rialzare urlandole che “presto la polizia li avrebbe raggiunti”, di non perdere tempo. Ho provato una sensazione di straniamento: dove mi trovavo? Che stupidaggine era quella di aver voluto osservare da vicino questo movimento – gli indignati – per intercettarne gli umori, sapendo che sarebbe potuto diventare violenza, scadere in atti vandalici, guerriglia, follia collettiva?
Pochi rudimenti di psicologia collettiva mi sono bastati per leggere i comportamenti di ciascuno: erano come alterati dal fatto che si fosse in un gran numero di persone. E al tempo stesso sembrava che la folla, di cui io e il mio cane facevamo parte, avesse una propria unità, si fosse costituita in un corpo unico. Cosa sarebbe potuto accadere di buono in quella situazione? Il mio cane fiutava pericolo e io, in preda a una sorta di contagio, con lui. Il “mio” gruppo è approdato in una Chiesa vicina: non una qualsiasi, Santa Croce in Gerusalemme, mentre la polizia iniziava a caricare i manifestanti (immagino ci siano andati di mezzo anche quelli non violenti). Si sentiva distintamente il rumore degli scontri che in quel momento avvenivano in piazza san Giovanni. Sotto il porticato della Chiesa, alcune mamme, orfane dei figli rimasti nel corteo, piangevano tutte le loro lacrime in preda a una sorta di disperazione. I preti non aspettavano altro: sono accorsi a consolare le povere donne. Hanno provato a chiudere i cancelli: a lasciare quel mondo violento e lontano, fuori. Ma un ragazzo non gliel’ha permesso: “Ci sono i miei amici lì fuori: non chiudete i cancelli, stanno per arrivare!”.
Ecco, in quel momento mi sono arresa: il mio cane si è steso per terra, sotto lo sguardo incredulo del prete, io mi sono appoggiata a una colonna del porticato, ho acceso l’ipod, chiuso gli occhi e ascoltato Vinicio Capossela, “Pena dell’alma”.

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