Mia nonna

Quando mia nonna decise di venire a vivere con noi, io non ne fui felice. Non stava già bene e mi faceva paura la prossimità con la malattia: avevo 12 anni. Divenni molto aggressiva con lei: mi ribellavo alla sua fine, a quell'attesa sofferente, a quella promessa di vuoto a venire.
Soprattutto, la sua vita dolorante scombussolava la mia idea di morte, l'unica che avessi sperimentato fino allora: all'epoca, per me la fine era qualcosa di repentino, un trauma che certo non aveva bisogno di annunciarsi, come uno che si chiude la porta alle spalle e va via senza voltarsi. Quello era stato mio padre, 3 anni prima.

Ecco perché collaborai attivamente, per rendere ancora più difficili gli ultimi giorni di mia nonna. Ero sempre immusonita, ce l'avevo con lei perché mi stava insegnando cosa fossero dolore e malattia: quando la vita si stacca piano piano dal corpo, gli toglie respiro, pace e ritmo. Gli strappa calore, sorriso e profumo. E lo schiaffeggia anche un po'. Fino a farlo cadere stremato.
Quando se ne andò, dopo un mese fatto di notti insonni (perché mai il dolore fisico è più insopportabile quando è buio?) e rabbia per dover assistere a quel lento spegnimento, mia madre mi chiamò mentre ero a letto, triste come sempre. Mi disse: "Tua nonna sta per andare, vuoi salutarla?". Io le risposi solo "no".
Ci sono cose che ti accuseranno per sempre ed è giusto così. Ci penso ogni tanto.
E ogni volta che sto poco bene, ogni volta che sento il mio corpo in sofferenza, come in questi giorni, penso al corpo di mia nonna. E mi dico: forse dovresti perdonarti, in fondo, eri solo una bambina che aveva paura. Ma poi, concludo che le ultime occasioni perdute ci salvano anche la vita, proprio quando chi ami la sta perdendo: se non fosse troppo tardi e potessi tornare indietro, farei diversamente. Mille volte. E domani, quando non avrò più paura, né dubbi, né fantasmi,  forse ci riuscirò a fare pace con me.

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