L’Italia non è la Kirghisia, nonostante Tremonti

“Il lavoro mi perseguita, ma io sono più veloce”, ripete Lupo Alberto, il protagonista scansafatiche della striscia creata da Silver. Eppure il ministro Tremonti non l’ha citato quando da Washington – a margine dei lavori del Fondo monetario internazionale – ha rispolverato con la consueta e appuntita enfasi delle grandi occasioni, un classico come la disoccupazione giovanile. Era successo già due anni fa, quando ci toccò assistere, increduli, all’elogio del posto fisso. Questa volta, se possibile, l’inquilino di via XX settembre ha osato di più, avvalendosi di un nuovo strumento retorico, quello dell’“immigrato prêt à porter”: dove è possibile, meglio respingere il clandestino, altrimenti si può sempre utilizzarlo a guisa di comoda statistica per giustificare politiche fallimentari e obiettivi mancati.
La tesi: in Italia, il lavoro c’è per chi vuole coglierlo, anche per i giovani dunque. La certezza di quest’assunto risiede in un fatto, per Tremonti: dal momento che abbiamo “accolto 4 milioni di immigrati che lavorano da mattina a sera e a volte anche di notte” e che tra gli stranieri non esiste “disoccupazione giovanile” (sulla base di quali fonti, non è dato saperlo); la conseguenza logica (per Tremonti) è che il nostro Paese offra “lavoro a certe condizioni e a certe persone”. E che, evidentemente, non ci sia “richiesta di questo lavoro da parte di altri” (i giovani italiani sfaticati, dunque).

Nell’hard discount vicino casa, il lavoro di una signora ucraina, un ragazzo senegalese e una giovane donna transessuale è pagato tre euro l’ora, in nero naturalmente: caro ministro, prima di parlare di lavoro, poterlo pesare e dargli valore (anche statistico), sarebbe importante capire quanto sia libero. E umano. E se sia, davvero, una buona notizia, che un ragazzo italiano, meno disperato e fragile di un coetaneo migrante, non abbia tutto il diritto di rifiutare condizioni di lavoro non dignitose – per qualsiasi essere umano – e svilenti. Infine, per chiarezza, sarebbe utile chiamare con il suo nome, quella a cui assistiamo tutti i giorni: una spaventosa guerra tra poveri.

Secondo i dati della CGIA di Mestre gli stranieri in Italia sono pagati meno degli italiani (mediamente 319 euro al mese) e il loro livello di disoccupazione ha toccato l’11,4 per cento (contro una media nazionale presente in Italia che si attesta all’8,4 per cento). La relazione sull’occupazione europea, curata dalla Commissione Ue nel 2010, sottolinea come la crisi abbia colpito soprattutto i giovani e abbia ulteriormente approfondito la differenza tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori temporanei e precari: “Questi ultimi, spesso giovani, sono pagati meno, ricevono meno formazione e, spesso, hanno difficoltà a ottenere un posto regolare”, sostiene il report. Che sottolinea come la disoccupazione giovanile vada “dal 4 per cento in Danimarca e Olanda al 16-20 per cento in Italia, Cipro e Bulgaria”.
In Lettere dalla Kirghisia, di Silvano Agosti, leggiamo di un paese straordinario, dove “non si lavora più di tre ore al giorno, a pieno stipendio, con la riserva di un’eventuale ora di straordinario. Le rimanenti 20 e 21 ore della giornata vengono dedicate al sonno, al cibo, alla creatività, all’amore, alla vita, a se stessi, ai propri figli e ai propri simili”. L’Italia non è la Kirghisia, nonostante Tremonti.

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