Eluana e la tortura di Stato

Ramòn Sampedro, scrittore spagnolo tetraplegico a causa di un incidente, passò il resto della propria vita a lottare per ottenere il suicidio assistito. Alla fine, chiese a una sua amica di essere avvelenato col cianuro: fine orribile, raccontata con maestria da Alejandro Amenabar, nel bellissimo film “Mare dentro”. Quando ancora Sampedro combatteva per vedere riconosciuto il diritto all’eutanasia, disse più o meno queste parole: “L’arma migliore a disposizione dei potenti per sottomettere gli altri è l’imposizione della paura del dolore”.


Potere e malattia. Potere e morte. A leggere in questa chiave il dibattito – legislativo e mediatico – che ha affiancato e poi seguito la vicenda umana di Eluana Englaro, tutto si fa più chiaro: persino il disegno di legge “truffa” sul biotestamento, in discussione alla Camera – quello che finge di disciplinare le modalità in cui dare “indicazioni” per il tempo della fine della vita, salvo, poi, stabilire che il medico non è obbligato a seguirle – improvvisamente acquista un senso. Che emerge benissimo nelle pagine intense e rigorose, de “Gli ultimi giorni di Eluana”, un libro scritto a quattro mani – per le edizioni Biblioteca dell’Immagine – da Amato De Monte e Cinzia Gori: il primo, anestesista rianimatore a capo dell’equipe che prese in carico Eluana Englaro nei suoi ultimi giorni di vita, la seconda, una delle infermiere che la assisteva.

Non si tratta, dunque, di due intellettuali che discettano di bioetica, diritto e morale, valori e fine vita, ma di due operatori sanitari che hanno assistito, lavato, accompagnato Eluana e il suo corpo, alla clinica “La Quiete” di Udine, fino a quando non vennero sospesi i trattamenti medici che la mantenevano in vita. E fino a quando, come dice Amato De Monte a Beppino Englaro, annunciando la morte della figlia dopo 17 anni di stato vegetativo, Eluana non fu “liberata”.

Una cronaca senza slabbrature, fatta di osservazione, di atti quotidiani a servizio di un corpo senza più vita consapevole, di partecipazione reale: Cinzia Gori, che di corpi in attesa di spegnersi ne ha assistiti a decine, a centinaia, di fronte a quella giovane donna, si è dovuta chiedere: “Ma come è possibile imbrogliare così gli italiani e giocare con i loro sentimenti?”, come si può spacciare “la nutrizione per sondino” come qualcosa di naturale?

In effetti, Eluana Englaro, alla fine della sua vita, era dipinta sulla stampa e dai politici del “partito pro vita” – odiosa etichetta che serviva a distinguere gli altri, quelli del “partito del diritto di morire” – come una bella addormentata nel bosco, ancora giovane e vittima di un incantesimo: si disse che era persino in grado di portare avanti una gravidanza, oppure capace di bere un frullato. In realtà, l’unico a difendere “l’intimità di sua figlia”, scrive De Monte, era papà Beppino: lo fece “come un leone e infatti non ne mostrò l’aspetto nemmeno quando questo avrebbe potuto giovare alla causa”.

Come e perché, “nell’era della privacy”, valore che pare essere preziosissimo per questa maggioranza di governo, si accetta di “consentire l’invasione del corpo in assenza o contro la volontà dell’individuo”? Se lo chiede, a un certo punto, Amato De Monte che dice di non potersi “capacitare della noncuranza dei legislatori sugli effetti clinici dell’obbligo coatto al trattamento nutrizionale”. Obbligatorietà prevista dal provvedimento all’esame di Montecitorio, e nodo principale che metterebbe in disaccordo tutti: un esempio? Le possibili “difficoltà cardio-respiratorie” che, accelerando il processo di morte, lo renderebbe “addirittura più angosciante”.

Come si spiega, dunque, questa “espropriazione della morte”? Si chiede Antonio Cavicchia Scalamonti, sociologo e tanatologo che, riflettendo sul lavoro di De Monte e Gori, cita il famoso saggio di Geoffry Gorer, scritto nel 1955: “La pornografia della morte”, in cui lo psicoanalista e sociologo dimostra come, nel mondo occidentale, la morte sia diventata qualcosa da mettere da parte, da esorcizzare, come se si trattasse di un elemento di cattivo gusto, un nuovo tabù che è andato a sostituire quello sessuale.

“Ci convinciamo”, sostiene Scalamonti, “che la morte non sia dentro di noi, ma venga da fuori, non ci appartenga” e quando “qualcuno sceglie la propria fine, come Mario Monicelli, crea scandalo”: il suicidio ricolloca la morte dentro di noi. E rompe l’incantesimo. Da qui la fede nella scienza: “Si muore di malattia”, spiega Scalamonti, “e dunque, per principio, il male – prima o poi – è qualcosa da cui si potrebbe guarire, grazie alla ricerca scientifica”. E la scienza è la sola in grado di regalarci l’immortalità. Sì, la stessa idea di matrice giudaico-cristiana, spiega il sociologo, secondo cui “una vita senza immortalità è una vita senza senso”.

Certo, è interessante osservare come, la stessa Chiesa cattolica, che condanna il suicidio e, in generale, ogni atto di autodeterminazione di ciascuno sulla propria vita, accetti come parola di Dio le parole di Gesù, così come riferite nel Vangelo secondo Giovanni: “Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita, per ripigliarla poi. Nessuno me la toglie, ma la depongo da me”. E abbia accolto come fondante del proprio corpus religioso, il sacrificio di Cristo.

Torna il tema del potere e del suo rapporto con la fine della vita. Chi può vantare una tale autorità sulla vita di un’altra persona, tanto da deciderne le sorti? Un’autorità laica o, piuttosto, una religiosa possono arrogarsi un tale diritto? Il libro sembra rispondere no a questa domanda cruciale.

De Monte sostiene che, se per legge, passasse l’idea che l’“idratazione corrisponda a pane e acqua”, allora si ritornebbe al Medioevo, e l’unica arma sarebbe la “disobbedienza civile”.
“Che vuoto lascia una figlia che impiega 17 anni per morire?” si chiede, alla fine alla fine del libro, Cinzia Gori, pensando a papà Englaro. Lo stesso vuoto, che tutti i figli lasciano nelle vite di chi li ha generati. Forse, un po’ più profondo.

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