Parentopoli e "l'apartheid" dei diritti

Caro Civicolab,

oggi il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto una cosa di buon senso che purtroppo, solo per un attimo, ha abbassato il volume dell’inutile e rumoroso dibattito acceso dalla manifestazione del 14 dicembre e dagli episodi di violenza nelle piazze: “La protesta pacifica è una spia di malessere che le democrazie non possono ignorare”.

Un’osservazione banale, forse, proprio perché si tratta di un dato di realtà. Che “vale doppio” per chi vive nella capitale: qui, il malessere, almeno tra i giovani (e meno giovani) precari, in cerca di occupazione, vittime di questa crisi economica che sembra accanirsi proprio sui più deboli, è un macigno pesantissimo.

Che pesa più che mai, da quando le inchieste della Procura di Roma e della Corte dei Conti hanno tolto il velo che ammantava la parentopoli capitolina: è venuta così alla luce una gigantesca macchina illegale che ha permesso di effettuare centinaia di assunzioni a chiamata diretta, in aziende che gestiscono servizi pubblici (le romane Atac e Ama che, tra l’altro, “vantano” bilanci disastrosi): parenti più o meno lontani, amici, amici di amici, conoscenti.

Tutti assunti “sulla parola”! Il merito? Ridotto a un legame di sangue. O comunque a criteri del tutto esterni rispetto a quelli che dovrebbero informare la corretta selezione del personale. E non per una qualsiasi impresa a conduzione familiare della Bassa padana, ma per un’azienda municipalizzata.

E chi controlla la qualità del servizio affidato al cugino di secondo grado, o all’amica di amici? Chi verifica il lavoro svolto di chi è stato cooptato e non scelto per meriti propri? E con quale trasparenza?

Un atto di arroganza come l’ha definito bene, nel proprio pezzo su Civicolab, Roberto Ceccarelli, “che offende i disoccupati ed i precari che continuano a lavorare per pochi soldi, senza continuità e senza una prospettiva per il futuro; che offende coloro che proseguono a fare i sempre più rari concorsi pubblici, fidandosi ancora del settore pubblico e ben sapendo che le speranze di vincerlo sono davvero poche”. Ma non si tratta solo di questo.

Quello che è avvenuto a Roma, e che si ripete ogni volta che un’azienda pubblica viene amministrata secondo logiche familistiche, come una “cosa propria”, abusando di un potere al posto di esercitare una responsabilità e offrire un servizio, è un vero e proprio furto.

Furto dell’idea – prima ancora che del posto in sé – del lavoro come “bene comune”.

“Comune” proprio come l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, la terra che tutti quanti calpestiamo.

Il giuslavorista Pietro Ichino, sul proprio sito web, utilizza una definizione forte per indicare il divario, sempre crescente – e in spregio del diritto sancito dalla Costituzione ad avere un lavoro dignitoso – tra “protetti e non protetti”. Ichino parla di apartheid e mi scuserai, caro Civicolab, se ti confermo di sentirmi esattamente così, vittima di una cattiva politica e di scelte normative peggiori, che hanno fatto della “segregazione” dei diritti (sicurezze e stabilità per pochi, eletti e privilegiati; instabilità e concessioni a singhiozzo per molti) una pratica ordinaria e non, invece, un’eccezione fuorilegge, come dovrebbe essere.

Dal canto mio, continuerò a inviare curricula, da cui, diligentemente, dovrò cancellare master, pubblicazioni, esperienze importanti: per non sentirmi ripetere, tutte le volte, sempre lo stesso ritornello. “È certa di voler fare questo lavoro? Con un curriculum pesante come al suo…”. Ed io, tutte le volte, che vorrei rispondere: “Di pesante c’è solo la paura del futuro”.

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