Partono i “Mondiali al contrario”. Il Sudafrica in Italia ci insegna la rivolta


Chissà cosa penseranno i sudafricani di Abahlali baseMjondolo (‘quelli che vivono nella baracche’, in lingua zulu) delle parole di This time for Africa, l’inno ufficiale della Coppa del Mondo 2010, che si svolgerà in Sudafrica dall’11 giugno all’11 luglio: “Il momento è arrivato, cadono le mura, inizia l’unica battaglia. Non fa male il colpo, non c’è paura, scuotiti la polvere, alzati, e torna sul ring. E la pressione che senti, spera in te, è il tuo popolo!”. Un mix di folk, jazz e blues che canta un inno alla lotta per la liberazione e l’integrazione, tratto da una canzone camerunense, Zamina, riscritta e interpretata dalla cantante colombiana Shakira con l’accompagnamento dei Freshlyground, una band molto conosciuta di Città del Capo.

“Dovrei essere felice perché i mondiali si giocheranno a casa mia e invece non posso esserlo perché la Coppa esclude la maggioranza di noi”, racconta Philani che, insieme a Busisiwe e Thembani, sta attraversando l’Italia per la campagna dei ‘Mondiali al contrario’, promossa dal settimanale Carta insieme a due missionari comboniani di Castel Volturno, Filippo Mondini e Antonio Bonato. Un percorso inverso a quello ufficiale che ha preso il via due giorni fa nella capitale e si concluderà il prossimo 30 maggio.

Da Castel Volturno a Reggio Calabria, da L’Aquila a Chieti, da Pisa a Verona, da Santorso alla vicina Vicenza, da Milano a Varese, e poi a Torino e in Val di Susa, per tornare a Roma: al tour hanno aderito soggetti molto diversi tra loro, come centri sociali, amministrazioni comunali, parrocchie, pro loco e comitati civici. Un programma itinerante, fittissimo di appuntamenti (per conoscerne le tappe: clandestino.carta.org), lungo il quale i tre del movimento Abahlali incontreranno associazioni e singoli cittadini per raccontare che cosa significhi la Coppa del mondo per i sudafricani più poveri, per parlare della loro lotta per terra, case, dignità e democrazia nel Sudafrica post-apartheid, e “ascoltare – a loro volta – il racconto di chi si ostina a immaginare un altro mondo”.

Filippo Mondini è un missionario comboniano laico. Prima di tornare in Italia, a Castel Volturno per la precisione, Filippo ha vissuto per cinque anni in una delle tante baraccopoli, distante una sessantina di chilometri da Durban, nella repubblica sudafricana. Poco prima della partenza per questo ‘viaggio al contrario’, prova a spiegarci l’idea di lotta (“per l’autogoverno e l’autonomia e non per la conquista del potere”) che porta avanti il più grande movimento di impoveriti del paese, Abahlali, che si articola in oltre quaranta insediamenti di molte città – come la stessa Durban, Pinetown, Città del Capo, Pietermaritzburg e Port Shepstone – e dove i baraccati vivono senza acqua e senza elettricità, in condizioni disumane.

Ecco: i mondiali, visti dagli slum sudafricani, non sono affatto un fenomeno sportivo. Migliaia di famiglie sono state sfrattate perché accusate di occupare spazi destinati alla costruzione di nuovi stadi o alla ristrutturazione di quelli vecchi. Un popolo di poveri ambulanti, ragazzi di strada, baraccati sono stati spostati con la forza nei ‘transit camp’, veri campi di reclusione dalle condizioni di vita pessime. Un esercito di invisibili, tenuti alla larga dagli stessi stadi per non ‘sporcare’ i racconti ufficiali di un paese su cui stanno per accendersi le luci dei riflettori di tutto il mondo. È lo stesso Sudafrica che ha vinto l’apartheid, quello di cui parla Filippo, la ‘nazione arcobaleno’ come è stata definita per la sua eterogeneità etnica: ora, è “solo lo Stato più ineguale del mondo”, a causa delle scelte economiche del partito-stato”.

Ma “i senza voce, in realtà, una voce ce l’hanno”, spiega Mondini, “e l’esperienza africana ce lo dimostra: sono un soggetto pensante a differenza di quanto avviene in Italia” ed è la ragione per cui è nato Abahlali. Per smettere di delegare la rappresentanza di alcuni diritti fondamentali, come quello alla salute, al lavoro, ai servizi essenziali. Per scendere in campo e riprendersi la politica, non quella dei potenti, ma quella che viene chiamata «ipolitiki ephilayo», la politica della vita. Come spiega un membro del movimento si tratta di “una politica fatta in casa, in modo che ognuno, ogni vecchia signora, ogni giovane, ogni padre di famiglia, riesca a capire. Certo chi non abita nelle baracche può venire e collaborare con noi… ma come servo e non come padrone”. In una frase: l’autogoverno dei poveri.

“Il rischio che corriamo in Italia”, conclude Filippo, “è che la così detta società civile non crei una politica realmente emancipatoria, di cambiamento, ma si limiti a ripiegare su semplici aggiustamenti”. In buona sostanza è quello che Abahlali ha osato dire al ceto politico che lo governa: “Talk with us and not about us!”. Qui, in Italia, dove a settimane alterne “gli operai, per protesta, vanno sui tetti e lottano per il proprio posto di lavoro”, a queste rivendicazioni (“giustissime”), secondo il missionario comboniano, manca un requisito fondamentale per fare di “una rivolta, un evento”: l’universalità.

E la rivolta di Castel Volturno? E quella degli ‘schiavi’ di Rosarno? In entrambi i casi, sono stati “gli immigrati a lottare contro un sistema di sfruttamento che li vessava”. Ma noi “soffochiamo la rivolta, non riusciamo ad ascoltarla”. Perché ci fa paura e non la riconosciamo. Noi, cittadini di una democrazia che funziona perfettamente. Dicono.

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